la Repubblica 
20 marzo 2016
Cloe Piccoli

 

Ora, a ottantaquattro anni, dopo aver vinto due volte il Compasso d’oro, diretto tre riviste, lavorato per i marchi più celebri, fondato movimenti culturali e inventato concetti teorici, questo grande designer e architetto è piuttosto nell’artigianato che confida le sue speranze: “Sì, perché ormai è soltanto nel lavoro artigianale che si può creare il pezzo unico, e quindi l’opera d’arte, o almeno l’oggetto che più si avvicina all’arte. E in fondo è questo quello che faccio io”

Se ne sta seduto al suo tavolo fra libri, disegni, quadri, ceramiche e matite colorate in cima al soppalco del suo atelier, un intrico di scale, balconcini e scalette tra Blade Runner e Piranesi, a due passi da Porta Romana. Appoggiato a un cassettone del Settecento c’è un suo ritratto firmato da Mimmo Paladino. E poi ancora altri disegni, e lampade, incluse le ultime, quelle che ha progettato per un giovane imprenditore coreano. Blu, rosse e gialle sembrano luminose orbite planetarie.

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In questi giorni l’architetto e designer ha ben due libri in uscita, per Electa un Codice Mendini e per Publimedia Scritti di domenica — «è l’unico giorno in cui mi capita di stare in studio da solo e allora posso scrivere». Per raccontarsi parte dall’idea del Postmodernismo, di cui è uno dei protagonisti più interessanti. «Non credo di avere uno stile, semmai un sistema di stili sfuggenti, che continuano a scappare. Sono curioso delle trasformazioni dei metodi di vita, delle arti, dei cambiamenti delle mentalità, inseguo sempre la logica della trasformazione che coniuga elementi nuovi e altri che appartengono ad altre epoche». Ha un’empatia speciale, che ti mette subito a tuo agio, la stessa che si percepisce nei suoi oggetti e progetti. «È proprio questo il Postmodernismo, è il riconoscimento che la cultura è circolare o, meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse. Non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira attorno alle incertezze».

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