ilgiornale.it
30 novembre 2015

 

Gli architetti italiani sono costretti, ovunque lavorino, a fare i conti con il loro territorio d'origine, a Camberra come a New York, a Ivrea come a Napoli. Su questa «Comunità Italia», ovvero su questo dna progettuale che lega tra loro personalità molto diverse, si concentra la mostra appena aperta in Triennale, in una settimana che ha visto l'istituzione milanese particolarmente attiva con l'inaugurazione di tre esposizioni che indagano rispettivamente il linguaggio della moda italiana contemporanea, quello dell'arte e, in quest'ultima, quello dell'architettura. Alberto Ferlenga e Marco Biraghi hanno curato lungo la grande curva del piano terra della Triennale «Comunità Italia. Architettura, città e paesaggio dal dopoguerra al Duemila» (fino al 6 marzo, catalogo Silvana editoriale), una mostra densa e complessa. Pannelli e supporti multimediali guidano il visitatore lungo un percorso in centoventi opere tra disegni, taccuini, fotografie, mappe, album, modellini. 

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Diverse idee di ricostruzione

Il Sole 24Ore 
29 novembre 2015
Fulvio Irace

 

Un libro di Carlo Melograni e una mostra alla Triennale di Milano condividono la necessità - pur da punti di vista diversi - di ripensare le vicende del nostro Paese a partire dall’epopea della ricostruzione dopo il trauma del secondo conflitto mondiale. 

Più di mezzo secolo è da allora trascorso e la naturale riluttanza dello storico a ricostruire vicende di cui era stato testimone, può essere considerata una remora superata. Ci provò per primo nel 1982 Manfredo Tafuri con un taglio fortemente autoriale e quasi dieci anni dopo Francesco Dal Co con la regia di lettura per frammenti, affidati a un gruppo selezionato di studiosi. A maggior ragione oggi la distanza temporale consente una prospettiva di più lunga durata mentre gli scenari dell’architettura sono talmente mutati da influenzare la produzione di nuove interpretazioni.

Non a caso, la tesi di Carlo Melograni – che per il suo diretto coinvolgimento nella storia di cui narra può considerarsi un Erodoto moderno – è quella che «nel nostro paese i conti con l’architettura funzionale vanno rifatti da capo». Insistendo sulla specificità della nostra condizione nazionale, sul mito delle tradizioni locali e dell’artigianato costruttivo ci siamo progressivamente rinchiusi in un bozzolo di autocompiacimento, tenendo fuori dalla porta i problemi della crescita indiscriminata, dell’assalto al territorio, della mancanza di infrastruttura. In poche parole alla crudezza della realtà abbiamo preferito l’evasione nella poesia. «Dovremmo invece - dice Melograni – tenere spalancate porte verso l’esterno» perché «l’impegno sociale distingue la vera dalla falsa modernità; si può dire la modernità dalla modernizzazione». 

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