la Repubblica 
2 marzo 2017
Laura Montanari

 

Per molti restano le parti fragili delle città, quelle che si sfrangiano verso le strade di grande percorrenza, raffiche di finestre, parabole e panni stesi. Isole di palazzoni costruiti uno dietro l’altro in un affanno edilizio che sapeva di boom economico e di un’urgenza abitativa che si è poi tradotta, negli anni, in mille emergenze: sociali e non. Secondo la Treccani la periferia è “l’insieme dei quartieri di una città più lontani dal centro”.

È davvero questo o solo questo? L’architetto Stefano Boeri mette in discussione lo stesso termine “periferia”: «È vago. La periferia allude a un’assenza rispetto al centro, qualcosa di riconoscibile geograficamente anche usando un righello. Ma non è così, nelle città europee la periferia è un concetto mobile. Il degrado e l’assenza di servizi si possono trovare anche nei centrali Quartieri Spagnoli di Napoli o in certe aree storiche di Genova o nelle zone a ridosso delle grandi stazioni ferroviarie». Dunque il concetto di periferia, sostiene Boeri, non coincide più con la ciambella esterna che fascia le aree urbane: «Se andate a Bruxelles, per esempio, vedrete che l’area in cui vivevano i terroristi si trova a pochi chilometri dal centro, eppure sono quartieri difficili, di famiglie emigrate dal Maghreb o da altri Paesi, dove non c’è un mix sociale.

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A proposito di periferie, l’architetto Renzo Piano ha dato vita a un progetto di “rammendo”, un recupero fatto non di grandi interventi, ma di piccole azioni capaci di generare cambiamenti rapidi, senza attese generazionali. Possiamo ricucire certe ferite urbanistiche senza aggiungere altro cemento, ma servizi, orti, linee di bus, associazioni o abbattendo qualche muro. I numeri dicono che in Italia il 60 per cento della popolazione vive in quelle che genericamente indichiamo col nome di “periferia”. «Il primo punto è che non dobbiamo considerare le periferie come “altro” rispetto alle città, il secondo che qualunque riqualificazione non può limitarsi a ristrutturazioni fisiche dei luoghi, ma puntare su meccanismi che introducano nuove funzioni e attività che siano in relazione fra loro», spiega l’architetto Ottavio Di Blasi, che ha collaborato con Renzo Piano al progetto G124. 

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A cosa serve l’architetto

Alcuni italiani giudicano i professionisti del progetto un costoso fastidio burocratico più che un aiuto per valorizzare la casa e viverci meglio. Ne parliamo con Marco Piva, uno dei protagonisti del Made

la Repubblica 
2 marzo 2017
Sibilla Di Palma

 

(...)  Una descrizione, quella tratteggiata da Piva, che serve a ben delineare una professione talvolta sottovalutata in Italia: non di rado infatti l’architetto viene infatti considerato più un burocrate incaricato di occuparsi delle questioni normative legate a un progetto che un aiuto per rendere la casa migliore. A persistere è inoltre una certa confusione circa le sue reali competenze, tanto che alcuni pensano, erroneamente, che sia interscambiabile con l’ingegnere o il geometra. «È un ruolo che in numerose circostanze si tende a marginalizzare all’atto creativo, fraintendendone le competenze professionali, che sono invece indispensabili per il corretto sviluppo del progetto», conferma Piva. «Inoltre, spesso l’architetto viene considerato come il creativo che genera le idee, ma che poi non è in grado di portarle a compimento, quando in realtà è una figura indispensabile allo sviluppo armonico dell’intero processo costruttivo». Il ruolo, spiega, è in particolare quello di configurare il progetto, «dandogli continuità dalla fase di concept fino all’interior design». Una sorta di direttore d’orchestra «che è anche in grado di occuparsi del coordinamento delle altre professionalità, ingegneri, specialisti e consulenti, dotate di competenze più tecniche e specifiche necessarie a portare il progetto a compimento». Oggi poi, secondo Marco Piva, il valore aggiunto di questo professionista sta nell’essere uno degli interpreti dell’evoluzione sociale e culturale.

 

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