Corriere della Sera 
11 febbraio 2017
Luca Molinari

 

«Il glamour è la cifra del Déco (..) ma il fenomeno è anche molto più di questo, poiché il Déco non è solamente un modo di progettare e di realizzare oggetti, decorazioni, ambienti, architetture, ma è un sistema di segni, un linguaggio». L’incipit del saggio introduttivo di Valerio Terraroli, curatore della mostra dedicata al Déco in Italia e uno degli esperti più interessanti nella rilettura dei primi trent’anni della nostra storia figurativa, individua un elemento profondo che consente di tenere insieme storie ed esperienze formali apparentemente così lontane tra di loro. I primi decenni della vita culturale e artistica italiana del ‘900 sono un appassionante laboratorio in cui autori differenti hanno cercato di dare forma stabile a un sentire comune che emergeva con forza: il mondo nuovo di una modernità irresistibile, elettrica e metropolitana che attraversava ogni aspetto della vita delle città, che si gonfiavano di anno in anno di nuovi abitanti richiamati dal desiderio di una vita diversa.

(...)  L’Italia in questa fase storica riesce a produrre opere uniche, figlie di una paradossale congiuntura tra l’intuizione di una modernità che si fa massa e un sapere antico che passa attraverso le mani e sguardi dei suoi artigiani. Oggi molte di queste opere sembrano avvolte da una patina malinconica dovuta all’incuria ignorante e all’amnesia collettiva di quel senso di gioia febbrile che segnò quel quarto di secolo.

Sembra che oggi l’architettura non abbia più quel potere e la forza di parlare direttamente al nostro cuore e ai sensi tutti. Un suggerimento per gli architetti che verranno?

 

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