Corriere della Sera 
15 ottobre 2016
Luca Molinari

 

«Ad Alba, per il Palazzo di Giustizia, quasi una memoria di uno spazio antico tra il fiume e la città murata, abbiamo impostato terrapieni per “fermare la città” in uno spazio verde: quasi nascosto e lontano da ogni retorica che il tema suggerisce». Così Aimaro Isola racconta il Palazzo di Giustizia, progettato nel 1987 con Roberto Gabetti. Quando apparvero le prime immagini di questo edificio anomalo ci fu subito l’impressione che qualcosa fosse cambiato nel modo di pensare una tipologia pubblica, segnata tradizionalmente da una forte retorica e dal senso costante di un’eccessiva distanza tra l’istituzione e i cittadini.

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La sacralità laica di questo edificio, la sua forte rappresentatività pubblica e la volontà di rendere corpo un’idea di giustizia sopra le parti si era incarnata nell’Ottocento in una serie di grandi opere che utilizzano il vasto patrimonio dell’architettura classica come unica fonte possibile. La Corte Suprema di Washington, i Palazzi di Giustizia di Parigi, Lione, Montpellier per passare al «palazzaccio» di Roma di Guglielmo Calderini sono la perfetta rappresentazione di questo ideale visivo in cui il possente fronte principale e l’ingresso fuori misura annichiliscono la scala umana in nome di un ideale più solenne.

Anche nella prima metà del Novecento l’architettura moderna non sembra riuscire ad allontanarsi dal confronto con la cultura classica, come dimostrano le sedi di Palermo e Milano, disegnate durante il Fascismo dai fratelli Rapisardi e Marcello Piacentini, oppure con l’Alta Corte di Chandigarh progettata nel secondo dopo-guerra da Le Corbusier. (...)

 

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