Corriere della Sera 
4 settembre 2016
Vittorio Gregotti

 

Chi è a favore e chi è contrario: una cosa è certa, le archistar fanno discutere. È accaduto anche in un recente incontro dal titolo «Archistar sì, archistar no» alla Triennale di Milano. Personalmente sono molto attento all’invenzione (ormai da qualche anno in uso anche televisivo) della bizzarra categoria delle archistar (a cui io non appartengo).

È una precisa definizione dei protagonisti sia della disastrosa condizione della cultura architettonica di successo dei nostri anni, sia dei modi antimoderni di essere dei suoi progetti. Ne scrivo da trent’anni, contro i vaghi ma molto diffusi argomenti che la sostengono. Devo però ricordare anche che i processi di interrogazione autocritica sul Movimento Moderno sono iniziati già nel 1951, al Congresso internazionale di architettura moderna (Ciam) di Hoddesdon e al convegno di Darmstadt dello stesso anno, dove Martin Heidegger intervenne con la conferenza «Costruire, abitare, pensare».

La definizione di archistar è soprattutto espressione coerente al passaggio dalla cultura industriale occidentale, prima familiare e poi manageriale, sino al capitalismo finanziario globale e descrive bene anche la fine della capacità di scontro politico della classe operaia.

(...)

È solo nel progetto (e poi nell’opera) che l’architettura diventa idea, cioè forma visibile. Tutto questo non esclude la presenza anche oggi di grandi e autentici architetti come Álvaro Siza o Tadao Ando e alcuni altri (anche tra i giovani italiani) che lavorano a partire da una critica alle contraddizioni del presente, alla ricerca di frammenti di verità (verità non assoluta ma storica) su cui fondare un nuovo possibile e necessario: anche proprio contro il parere delle maggioranze. Perché anch’io credo — come scriveva Theodor W. Adorno — «proprio perché l’architettura oltre che autonoma è legata a uno scopo non può negare gli uomini come sono anche se, in quanto autonoma, deve farlo».

 

Mappa del sito