Il Sole 24Ore
29 maggio 2016
Renzo Piano

 

Ma perché difendi la periferia? Una domanda che mi fanno spesso, è successo anche qualche giorno fa alla Biennale di architettura di Venezia. 

Stavo guardando le fotografie del Giambellino, la periferia di Milano dove lo scorso anno abbiamo lavorato con i giovani architetti del gruppo G124 al Senato. Abbiamo abbattuto un muro, che è sempre una bella cosa, e liberato il mercato comunale che ora si affaccia sul verde parco. Il quartiere dove Giorgio Gaber girava in Lambretta e che canta nella Ballata del Cerutti. 

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Perché la periferia è la città del futuro 

Difendo le periferie anche perché sono la città del futuro, che noi abbiamo creato e lasceremo in eredità ai figli. Dobbiamo rimediare allo scempio fatto e ricordarci che il 90 per cento della popolazione urbana vive nelle zone marginali.

Le periferie, che bisognerebbe chiamare città metropolitana, sono la grande scommessa del secolo: diventeranno o no urbane? Se non diventeranno città saranno guai grossi.

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Ho sempre lavorato e progettato ai margini della città. Fin dai tempi del Laboratorio di quartiere di Otranto realizzato con Unesco. Era la fine degli anni Settanta: insieme agli abitanti si faceva il progetto, insieme si sceglievano e mettevano a punto gli strumenti per intervenire, e ancora insieme si apriva il cantiere. Un processo partecipativo che non serviva, come purtroppo spesso accade, a persuadere ma ad ascoltare, capire e fare progetti migliori.

Fu allora che inventammo la figura dell’architetto condotto. Esserlo, come accade per il medico condotto, ti insegna una cosa fondamentale: l’arte di ascoltare la gente e di trovare l’ispirazione.

Anche oggi i miei progetti più importanti riguardano la riqualificazione di periferie urbane: dal campus della Columbia University a Harlem, al tribunale di Parigi verso i confini della banlieue nord, alla nuova scuola Normale superiore di Saclay a sud della capitale.

 

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