Il Sole 24Ore Edilizia e Territorio -  settimanale
18 maggio 2015
Mauro Salerno

 

Prima la rigida separazione tra progetto e lavori, poi l’eliminazione di ogni diaframma tra la fase della pianificazione e dell’esecuzione. Forse la sintesi è un po’ brutale, ma è più o meno questo quello che è accaduto nella legislazione italiana degli appalti negli ultimi venti anni. Cioè dall’avvento della legge Merloni – pensata magari con un eccesso di rigore frutto della allora recentissima e bruciante stagione di Tangentopoli – a quella del codice appalti e delle sue ultime evoluzioni, entrate definitivamente in vigore con il nuovo regolamento di attuazione nell’estate del 2011. 

Il fatto è che nel 1992 quando si incomincia a ragionare di una riforma del sistema degli appalti, terreno di coltura del sistema di tangenti smascherato dal pool di Milano, all’idea che fosse necessario separare nettamente le fasi della progettazione da quella dell’esecuzione dei lavori ci credevano un po’ tutti. Anche i costruttori che proprio su questo assunto avevano basato una loro iniziale proposta di riforma della legislazione dei lavori pubblici. Insieme al principio delle gare basate sul progetto esecutivo passarono una serie di regole destinate a inaugurare un vero mercato degli incarichi di progettazione che fino ad allora erano rimasti in un territorio opaco, al riparo dei principi di pubblicità e concorrenza suggeriti dall’Europa con la cosiddetta direttiva servizi.

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