Studi internazionali hanno quantificato per la prima volta l'impronta del cemento sugli oceani: barriere artificiali, porti commerciali e turistici, tunnel e ponti, piattaforme petrolifere, parchi eolici, infrastrutture per l'acquacoltura avanzano nei mari di tutto il mondo e ad oggi hanno “divorato” una superficie di oltre 2 milioni di chilometri quadrati in termini di modifica permanente di habitat e impatto sugli ecosistemi e biodiversità.

Poiché l’impatto è destinato a crescere ulteriormente del 50-70 per cento nei prossimi otto anni, gli studi sottolineano l’urgenza di un piano “green” anche per le coste.

E' necessario innanzitutto, dicono i ricercatori, sviluppare anche in mare criteri di edilizia "verde" che garantiscano la sostenibilità. In parallelo, azioni mirate di ripristino di habitat marini che offrono una protezione naturale contro erosione e inondazioni delle aree costiere, quali la vegetazione delle barene, le dune di sabbia, e i letti di ostriche, meglio dei muri di cemento.

Poi lo sviluppo di nuove biotecnologie per l'ambiente marino per ripulire e rivitalizzare le aree contaminate. Importante anche il capitolo di nuovi strumenti economici e incentivi.

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