la Repubblica 
10 novembre 2015
Francesco Erbani

 

«Per essere autenticamente moderna, l’architettura deve comunque concorrere a rendere migliori le condizioni dell’abitare ». Aggiunto che l’abitare non è relativo solo alla casa, ma a come ci si arriva, alle scuole, alle biblioteche, agli spazi verdi, ai servizi collettivi che le stanno intorno, è in poche parole che si racchiude la filosofia anti-archistar di Carlo Melograni. 91 anni, a lungo professore, poi preside di facoltà, progettista e, negli anni Cinquanta, militante contro la speculazione che fece di Roma una capitale corrotta rendendo infetta l’intera nazione, Melograni ha raccolto in un volume la testimonianza di ciò che accadde fra la fine della guerra e il 1960 ( Architetture nell’Italia della ricostruzione, Quodlibet). Ma non è la sua solo una ricostruzione storica. La storia c’è, però, come recita il sottotitolo, il filo che tiene insieme tante vicende e che poi si allunga oltre il 1960, arrivando a noi e affacciandosi oltre, è il conflitto modernità versus modernizzazione. Un conflitto che investe l’architettura, ma non solo.

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Anni fa lei scrisse un libro intitolato “Progettare per chi va in tram”. Che bilancio traccia di quell’architettura così aderente ai bisogni dei più deboli?

«Positivo, soprattutto se si guarda all’oggi. Oggi si è smarrita ogni idea sulla città. I partiti non sanno neanche che cosa sia».

Eppure il disagio abitativo è tornato a essere drammatico.

«Prevale la bizzarria competitiva, come l’ha definita Vittorio Gregotti. E invece, “essere architetto vuol dire pensare la città come fine di ogni fatto progettuale”, sosteneva Giovanni Michelucci. Siamo un paese che non aspira alla modernità, ma all’ultima moda».

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