avvenire.it
16 novembre 2015
Monica Zornetta

 

«Le periferie. Per noi non sono semplicemente dei luoghi fisici ma sono ambienti sociali, economici, culturali che possono produrre degrado, che possono costringere gli individui che le vivono ad una esistenza ai margini, priva di diritti e, spesso, di speranze. Ecco, noi vogliamo capire quali sono i luoghi dove questi problemi sono più vivi, più intensi, e con quali azioni possiamo intervenire per risolverli». Non hanno dubbi gli architetti dello studio Tamassociati: dalle periferie possono arrivare le energie con cui edificare il futuro delle metropoli e migliorare la vita delle persone, e intorno alle periferie hanno perciò costruito il progetto espositivo che lo scorso settembre li ha portati a vincere, sbaragliando una decina di autorevoli candidati, la curatela del padiglione Italia alla quindicesima Biennale di Architettura di Venezia.

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Da sempre lontanissimi dalle logiche delle archistar (come ha sottolineato Leopoldo Freyrie, presidente del Consiglio nazionale degli architetti, pianificatori, paesaggisti e conservatori, che lo scorso gennaio ha consegnato nelle mani di Simone Sfriso, Massimo Lepore e Pantaleo, il team cioè che nel 1989 ha dato vita allo studio associato, l’ambito premio di "Architetto dell’anno 2014") i loro sguardi e i loro lavori puntano lontano. Dagli anni Novanta infatti Tamassociati ha scelto di costruire nei luoghi più remoti del mondo, quelli oltraggiati dai conflitti, profanati dalle carestie, dalle epidemie e dalle gigantesche migrazioni per motivi economici: la valle del Panshir in Afganistan, la Repubblica Centrafricana, la Sierra Leone, il Sudan, l’Uganda. 

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