la Repubblica 
28 novembre 2015
Stefano Boeri

 

Caro direttore, non sono le periferie delle città italiane il solo posto dove guardare quando si riflette sui luoghi germinali del terrorismo nostrano. Non solo perché i nostri Corviale, le nostre Vele, i nostri Zen o Gratosoglio — nati come roccaforti isolate nel pulviscolo delle villette suburbane — non hanno nulla a che vedere con il gigantismo e la compattezza geografica delle banlieue di Parigi o di Marsiglia, così estese da occupare l’intera cintura esterna della metropoli. E neppure perché le nostre aree di degrado e periferia sociale, diversamente da Parigi, da Londra e da Bruxelles, sono un arcipelago e non una “ciambella”: da noi arrivano ad annidarsi perfino nel cuore antico di città come Genova, Napoli, Milano.

La verità è che degrado degli spazi, povertà, marginalità sociale, non sono il denominatore comune delle folli traiettorie dei giovani terroristi europei. Che vengono anche da quartieri piccolo borghesi, dove si alternano i condomini e le case unifamiliari; da famiglie lontane dalla povertà assoluta, da genitori attivi e scuole efficienti. Se dobbiamo trovare un gradiente spaziale del terrorismo, questo non sta nelle periferie, ma nelle zone dove si concentrano popolazioni con una cultura, una religione, un’origine geografica omogenea. Dove si addensano famiglie con la stessa origine geografica; le stesse tradizioni, aspettative e frustrazioni. 

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